La violenza sessuale non può essere evitata cambiando abito: lo rende evidente, più di mille parole, la mostra itinerante «Com’eri vestita?» che arriva anche ad Alberobello, precisamente a Casa D’amore, e i cui vestiti esposti – un pigiama, una tuta, un jeans e una maglietta – rappresentano simbolicamente quelli indossati durante la violenza e sono accompagnati da brevi racconti delle donne che l’hanno subita.
La mostra è stata inaugurata mercoledì 19 giugno, presso lo spazio Casa d’Amore (In Piazza Re Ferdinando IV di Borbone, 3) e sarà visitabile sino al 26 giugno, ogni giorno dalle ore 19 alle ore 21.
La mostra, fortemente voluta dall’associazione 1797 2.0 (presieduta da Mariella Laneve) e organizzata in collaborazione con il Centro Antiviolenza Andromeda e Sud Est Donne e il sostegno dell’Ufficio di Piano dell’Ambito di Putignano, nasce nel 2013 da un progetto dell’Università del Kansas, con il nome «What were you wearing?» e arriva in Italia, nel 2018, grazie a Libere Sinergie che, contestualizzandola al nostro ambiente socio-culturale, ha scosso l’attenzione pubblica, sfatando gli stereotipi sulla violenza sessuale. Una mostra che «non è stata solo un laboratorio sartoriale, ma un’esperienza di vita per ciascuna di noi», spiega Ira Panduku, responsabile organizzativa della rete Cav Sud Est donne.
Troppo spesso infatti, la domanda «Com’eri vestita?» arriva come un pugnale a colpevolizzare le donne che hanno subito uno stupro: lo stereotipo persiste, vivo, in ogni interrogatorio della sopravvissuta alla violenza, in numerosi articoli che la narrano, ogni qualvolta ci si trova a confrontarsi su questo tipo di episodi. Il «Se l’è cercata» è ancora molto presente nelle riflessioni su questi temi, tanto che il vestito indossato, il comportamento o l’atteggiamento tenuto, la scollatura, la gonna corta vengono ancora oggi letti come detonatore della violenza.
«Ospitare questa mostra è un segnale forte che aiuterà ciascuno di noi a riflettere sulle forme di violenza contro le donne – dice l’assessore alle Pari Oppotunità, Anna Piepoli – e sarà da monito per ciascuno ad evitare qualsiasi forma di colpevolizzazione verso donne vittime di stupro. Per noi questa mostra è un’altra occasione per parlare di questo tema, perché come abbiamo promesso sin da primo evento di novembre 2017, vogliamo che la riflessione sulla violenza delle donne sia un impegno quotidiano e non sporadico».
Inoltre davanti a Casa d’Amore, grazie alla collaborazione fondamentale di alcune aziende del territorio, è stata collocata una panchina dipinta di rosso che sia da emblema contro tutte le forme di violenza, fortemente voluta dall’amministrazione in collaborazione con l’associazione che organizza la mostra: «Da un’idea del writer Karim Cherif ques panchina –spiega l’assessore Piepoli – vuol rappresentare il posto occupato da una donna vittima di femminicidio segno tangibile collocato in uno spazio pubblico, visibile a tutti, di un’assenza causata dalla violenza. La panchina servirà a ricordare a tutti noi, ogni giorno, passando davanti a questo luogo patrimonio dell’umanità, che la violenza delle donne non può e non deve essere solo un tema su cui riflettere, ma è una vera e propria emergenza (e le cifre purtroppo lo dimostrano) e deve essere affrontata con serietà e impegno da parte di tutti. La scelta di collocare la panchina davanti a Casa D’Amore non è casuale: questo è uno dei luoghi simbolo di Alberobello. E’ patrimonio dell’umanità, appartiene a tutti. Come a tutte le donne appartiene il diritto inviolabile della libertà e del rispetto, contro ogni forma di violenza».
«La parola femminicidio suona persino dolce – dice il sindaco Michele Longo – in realtà la violenza sulle donne, che porta anche alla morte, è un crimine efferato, è brutalità, è violenza pura che noi come Comunità condanneremo sempre con forza». E che Alberobello sia città che condanna la violenza lo sottolinea Angela Lacitignola, coordinatrice del Cav Andromeda: «Alberobello è città contro la violenza e questo è evidente nelle vostre azioni quotidiane. Alla base della violenza non c’è una patologia psichiatrica, ma una patologia culturale. Lo stupro è la massima espressione del potere maschile sul corpo femminile che è reso muto e senza sentimenti, un corpo che viene usato con la forza per il piacere maschile. e allora c’è da chiedersi: perché quel corpo della donna fa così tanta paura che dobbiamo sottometterlo? Perché la relazione uomo-donna non può essere definita da un desiderio reciproco? Perché il potere che c’è in una coppia non può essere condiviso? La violenza riduce l’uomo a un mucchio di istinti, a pure istinto. Non dobbiamo mai abbassare la guardia su questo tema».